Confessioni di un social media qualcosa

A volte capita di leggere un articolo e sentirlo talmente proprio da volerlo condividere. Ecco: questo è uno di quei casi…

“Sono oltre cinque milioni le persone che in Italia lavorano con i social media. O dicono di lavorarci, intendiamoci. In fondo, cosa serve per diventare o essere un social media qualcosa?

 

Ogni giorno leggo di casi esemplari e lo specchio della società riflette benissimo la percezione di una professione avvolta nella nebbia dell’ignoranza. Basta prendere l’ultimo caso riportato da Francesco Lanza, un amico che sopravvive al web da vent’anni circa. E di seguito il Movimento 5 Stelle di Rieti che si sente in dovere di lanciare un comunicato stampa all’attacco di un’altra professionista del web, Enrica Gissi. La colpa? A quanto pare gestire una fan page guadagnando poco più di un euro all’ora. Eh, troppi soldi, dicono. Il carosello va poi avanti con tutti i vari favori in cambio di visibilità, schiere di neo-laureati o meno che pur di mettere un piede dentro qualche realtà si svendono totalmente. Oppure lavorano amabilmente aggratis. Potrei scriverci un e-book al riguardo, tanti sono i casi che conosco. Solo che poi dovrei pubblicarlo aggratis pure io.

“Eh, c’è la Crisi”. Ma ecco la novità: c’è la Crisi una sega.

Me ne rendo conto, non vi sto dicendo niente di nuovo. Si tratta del triste panorama social-popolare che inquina la scena da quando la Crisi è stata personificata. “Eh, c’è la Crisi”. Ma ecco la novità: c’è la Crisi una sega. Non dovrei utilizzare questo linguaggio, ma l’onestà intellettuale è diventata così rara da risultare volgare.

Internet è lo strumento più democratico di sempre: è spesso alla portata di tutti, offre visibilità e milioni di informazioni, ponendo in contatto Mondi diversi. Su Internet possiamo anche diventare ciò che vogliamo, senza badare allo status quo o ai chili di troppo. Internet è forse la rappresentazione eterea del “sogno americano”, una ricerca della felicità cibernetica e paradossale. Tutto questo è bellissimo, vero? No, la frase giusta è “Tutto questo sarebbe bellissimo”. E il condizionale è tutto un programma.

Cosa c’entra Internet con la Crisi, quindi? Semplice: tutto.

Il periodo economico non è semplice, siamo tutti d’accordo. Chi s’accontenta, gode. Dicono. Io dico invece che a godersela sono i soliti ignoti. Diamo la colpa alle banche, ai governi, a chi desiderate, insomma… tanto ovunque colpiate non sarete mai molto lontani da una verità che nessuno conoscerà appieno. E cosa succede in tutto questo? Che il concetto di qualità diventa effimero quanto quello dell’onestà di cui sopra, in un circolo vizioso che sembra non avere fine.

Un tempo un laureato qualsiasi, se non trovava lavoro nel suo campo d’azione, cercava il concorso statale, bancario o postale. Lo stesso discorso vale anche per chi l’Università l’aveva lasciata da parte, cercando lo stesso riconoscimento professionale per altre vie. Si provava a fare strada attraverso tanti settori che potevano essere più o meno sconosciuti, ma raggiungibili attraverso un paio di mesi di formazione a carico dell’azienda. Ultima risorsa: il vecchio – e forse – odiato call center di “Tutta la vita davanti” di Virzì. Ora come ora, però, laureati o meno, non trovano lavoro: la disoccupazione impera e le società non hanno sedie libere. E allora? Che fare? Come aprirsi una strada sbarrata da più fronti? Internet risponde.

Ogni giorno nascono centinaia di siti e blogger, alla faccia, tra l’altro, di chi diceva che il blog era morto già nel 2008. Su Internet posso re-inventarmi: eccomi allora Founder di CippaLippa, CEO di Ussignor ed Evangelist di Sarchiapone. Tanto basta poco, come una modifica su LinkedIn, un sito fatto dal cugino a 50 euro e un po’ di fantasia. La classe dirigente fa il resto: arrampicata su un modello verticale legato all’old marketing, vede nei social media una sorta di gioco. Considerando che il tessuto italiano è costellato da PMI e strette di mano, è facile immaginare come si finisce dentro questo empasse digitale dove la furbizia regna sulla professionalità.

Il mondo della Comunicazione è diventato il Concorso Nazional-Popolare più partecipato di sempre. Non sai che fare della tua vita? Sai mettere in fila soggetto-predicato verbale-complemento oggetto? Sai aprire un profilo Facebook? Allora è fatta: puoi diventare un social media qualcosa.

Forse ho divagato troppo fino a questo momento e urge qualcosa di più concreto.

Stando alle indagini ISTAT ad aprile 2013 gli occupati italiani sono circa 22 milioni. Considerando la stima a inizio articolo, è facile dire che 1 lavoratore su 4 è un social media qualcosa. Arrotondato per difetto, eh. Ci stiamo capendo di più, ora?

Ora bisogna farsi qualche ulteriore domanda, come:

  1. È possibile che tutta questa gente sia davvero qualificata?
  2. Con un’offerta così ampia, possibile che non ci sia qualche nipote disposto a lavorare per qualche zio?

E la migliore di tutte:

  1. Quanti lavorerebbero aggratis pur di avere una possibilità in più nel futuro?

Non sono una persona che crede nelle caste o nell’elitarismo di una categoria. Assolutamente no. Credo però che cultura, preparazione e professionalità siano state perse nel tempo, complice la Crisi, Internet utilizzato come giostra e i pochi scrupoli di chi sfrutta e di chi, ahimè, si lascia sfruttare. Andreste mai da un dentista che non ha studiato odontoiatria? Abitereste in una casa costruita da un intellettuale che non ha mai preso in mano una cazzuola? Affidereste vostro figlio a un serial killer? Queste sono le domande da porsi. E scommetto che chiunque risponderebbe no a tutte e tre, neanche se chi vi si proponesse lo farebbe, toh, aggratis.

La Crisi ha eliminato il concetto di qualità, Internet ha offuscato quello di professionalità e la Comunicazione è diventata la versione pret-a-porter di Bocca di Rosa. Riconoscimento e merito sono entità metafisiche che entrano in scena di tanto in tanto, solo per ricordarci che qualcuno ce la fa. Che la speranza è l’ultima a morire, ma non basta a pagare un mutuo. E la società prova a sopravvivere, votando il meno peggio o credendo alle favole.

I social media qualcosa non hanno colpe, diciamocelo, se non quella di provarci. Ma vogliamo farne un caso? No, dai, non me la sento. Dare il giusto peso alle cose: vogliamo professionalità? La paghiamo. Stesso discorso per la qualità. La Crisi? Non esisterebbe, perché i soldi ricomincerebbero a girare, dappertutto, non solo dai soliti ignoti. I nipoti e i cugini farebbero finalmente quello per cui sono nati e cioè le cene di Natale o Pasqua in famiglia. I furbetti? Messi all’angolo. Gli audaci? Promossi. Chi sa fare bene il proprio mestiere? Sarebbe soddisfatto e orgoglioso di farlo, senza dover combattere per una briciola. E Internet? Internet continuerebbe ad essere lo strumento più democratico di sempre. E rimarrebbe tale.

Ho appena raccontato un mare di fesserie?
Può essere.
Ma allora stiamo già affogando tutti senza accorgercene e i social media qualcosa sono l’ultimo dei nostri problemi.”

Matteo Bianconi
http://www.fanpage.it

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