Questa la definizione data da Pablo Picasso dell’americana Lee Miller (1907-1977) quando la ritrasse nel 1937.
Libera, creativa, coraggiosa, pluritalentata, modella fotografica, musa surrealista, fotografa, fotoreporter di guerra .
Il suo destino è stato tragicamente beffardo consentendole di esordire con attitudini genialmente creative che le hanno permesso di realizzarsi brillantemente nei suoi primi quarant’anni, ma che poi l’hanno abbandonata nei successivi trenta. A salvarla dall’oblio è stato un atto di filiale rivelazione, quello dell’unico figlio Antony Penrose che dopo la sua morte scoprì negli anni ottanta un deposito di sessantamila negativi e cinquecento stampe che avrebbero costituito i Lee Miller Archives, e lo stimolo ad alcune grandi mostre .
Elizabeth (Lee) Miller, nata a Poughkeepsie (New York), aveva vissuto all’età di sette anni l’orrore dello stupro da parte di un amico di famiglia, un trauma che le aveva reso il carattere instabile e refrattario ad ogni disciplina scolastica. Il padre, ingegnere meccanico e fotografo amatoriale, ne fa la sua modella preferita e ne asseconda il desiderio di possedere una macchina fotografica. Un breve viaggio a Parigi e in Italia per studiare arte la persuade che l’arte sarà l’avventura della sua vita. Diciottenne, bionda flessuosa bellezza moderna con una punta di chic europeo, nel 1927 è scoperta per strada da Condé Nast, l’editore di ‘Vogue’, i cui più famosi fotografi, come Edward Steichen, ne fanno l’icona femminile del nuovo secolo.
E’ proprio Steichen a suggerirle di tentare la carriera di fotografa con una lettera di presentazione all’americano Man Ray, geniale innovatore in fotografia e in pittura di ispirazione surrealista, che vive a Parigi e dal quale sfrontatamente Lee si farà assumere come modella e assistente di studio.
Vivranno insieme tre anni ma è l’intensità della loro doppia relazione, artistica e sentimentale, a liberare l’energia creativa di Lee. Con Man Ray partecipa attivamente al movimento surrealista ritraendo Jean Cocteau in una posa di incisiva semplicità, senza indulgere al culto narcisistico per la celebrità, come i suoi contemporanei e rivali, l’inglese Cecil Beaton e il tedesco Horst P.Horst.
A New York nel 1932, in piena depressione, Lee apre un elegante studio fotografico per raffinate immagini di moda e di pubblicità, ma nel 1934, benché ‘Vanity Fair’ l’avesse inclusa fra i sette più interessanti fotografi della nuova generazione, Lee, a ventisette anni, improvvisamente chiude con la professione di fotografa per sposare il maturo Aziz Eloui Bey, un alto funzionario egiziano, colto e cosmopolita, che le promette libertà e sicurezza. E parte con lui per il Cairo perché l’Oriente l’affascina. Le decisioni estreme le prende sempre d’istinto, quando sente che la routine minaccia il suo equilibrio psichico e inaridisce la sua creatività. In Egitto organizza spedizioni nel deserto in cui fotografa, per suo piacere, rovine di castelli, città morte, con una sensibilità lirica e insieme arcaica che fa di queste immagini dei capolavori cui si ispirerà Magritte. Nel 1939, quando Lee decide di lasciare l’Egitto per una vacanza in Europa, porta con sé una valigia piena di fotografie perché sa in realtà di andarsene per una rinnovata stagione artistica che il legame con il pittore surrealista inglese Roland Penrose, conosciuto a Parigi, saprà miracolosamente alimentare.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale la sorprende a Londra dove è andata a vivere con Penrose e dove la raggiunge un telegramma dell’ambasciata americana che declina ogni responsabilità sulla sua incolumità se non rientra immediatamente in patria. Ma l’Europa sta per vivere un’avventura cui non vale la pena di sottrarsi. E Lee straccia il telegramma.
E’ stato un caso quasi unico nella storia del giornalismo che la ‘British Vogue’, con fotografi come Cecil Beaton e Norman Parkinson, commissionasse a Lee Miler le più originali fotografie di documentazione della Londra colpita dai bombardamenti, come ‘Remington silent’, che fa appello alla famosa macchina da scrivere, ridotta ad un groviglio metallico, e’Women with fire masks’, bizzarro, surreale ritratto di due giovani donne, all’entrata di un rifugio antiaereo di Londra, che indossano con humour le maschere protettive per gli occhi contro gli effetti delle bombe incendiarie, quasi fossero elmi medioevali. Perché un po’ di humour aiuta a sopravvivere alla guerra!
Ma Lee dovrà attendere l’ultimo anno di guerra, il 1945, per vivere l’appassionante e rischiosa esperienza di fotoreporter dal fronte bellico. E se l’esercito inglese interdice alle donne l’accesso al fronte, è David E. Sherman, fotografo americano di Life, a consigliare Lee a farsi accreditare, in quanto cittadina americana, dal comando americano come corrispondente di guerra per ‘Vogue’. Indossando l’uniforme militare americana, Lee è la prima donna fotoreporter a visitare la Normandia subito dopo lo sbarco alleato e firma il suo primo fotoreportage ,‘Unarmed Warriors’, sull’assistenza delle infermiere in un ospedale da campo americano, dove uno staff di quaranta medici e quaranta infermiere eseguivano una media di un centinaio di operazioni ogni ventiquattro ore. Come molte delle celebrate fotografie del Vietnam di Don McCullin vent’anni più tardi, l’importanza delle immagini della Miller non sta nella precisa informazione che ci trasmettono quanto nella loro viscerale immediatezza, nella loro intuitiva eloquenza. Ed é la prima volta che infermiere vengono fotografate sul campo, grazie alla testimonianza di una donna.
Per nove mesi, tra lo sbarco degli alleati e la loro vittoria, Lee è ovunque era necessario essere, senza paure e senza esitazioni, sostenendosi con l’alcol e le anfetamine, perché se la guerra alimenta la sua tensione creativa mina anche il suo equilibrio psichico. Nel 1944 è fra i primi coraggiosi fotoreporter a testimoniare la liberazione di Parigi e la celebre immagine che la ritrae con Picasso nello studio dell’artista è emblematica della sua empatia per gli artisti il cui spirito creativo non era stato fiaccato dall’occupazione nazista. Prima donna fotoreporter ad entrare nel campo di sterminio di Buchenwald, il suo reportage,‘Nazi Harvest’, evoca il paesaggio di un’idillica primavera tedesca, punteggiato di villaggi, castelli e fertili pianure, che Lee fotografa con rabbiosa riluttanza, nella consapevolezza che i tedeschi che ha incontrato hanno mentito nella loro negazione del nazismo, fino alla spudorata audacia di considerarsi ‘liberati’ piuttosto che ‘conquistati’. Sono questi gli orrori che Hannah Arendt avrebbe definito ‘la banalità del male’. Coloro che sapevano erano normali pubblici ufficiali, come il borgomastro di Lipsia, trovato suicida nel suo ufficio, insieme alla graziosa figlia, compostamente abbandonata su di un divano, di cui Lee illumina con particolare intensità il cereo volto, di una bellezza surreale. O il postumo ritratto di una guardia delle SS, il cui corpo affiora dalle acque di un canale.
Prima fotoreporter ad entrare nell’appartamento privato di Hitler a Monaco, le immagini di Lee (‘Hitleriana’), senza pretendere l’evidenza fotografica della morte di Hitler nel bunker di Berlino, assumono un ruolo ben altrimenti significante, come quella del maggiore americano che si rilassa usando il telefono privato di Hitler e leggendo il ‘Mein Kampf’. Lee sigilla la fine del Reich in un modo più sottilmente ironico, più femminile, direi, facendosi fotografare nuda da David Sherman, il fotografo di Life, mentre si deterge dalle scorie della guerra nella vasca da bagno di Hitler. Gli scarponi, ai piedi della vasca, avevano camminato attraverso l’orrore del campo di morte di Buchenwald, al mattino di quello dello stesso giorno.
Quello scatto suggella la fine della guerra ma anche dell’esaltante stagione di Lee come corrispondente di guerra. Nel 1947 sposa Penrose, hanno un figlio, Antony, e vanno a vivere a Farley Farm, una fattoria nel Sussex, dove Lee seppellisce il suo passato di fotografa e fotoreporter di guerra, rifiutandosi anche di menzionarlo.
Muore di cancro nel 1977 a settant’anni.