In Italia il 50% degli adulti non possiede un computer, né sa usare le mail. Un dato enorme se paragonato agli Stati Uniti e al resto d’Europa. Ma per fortuna tra i ragazzi sotto i 20 anni le proporzioni si invertono, e i “nativi digitali” sono perfettamente in linea con le competenze tecnologiche dei loro coetanei stranieri
di MARIA NOVELLA DE LUCA – Repubblica.it
Non sanno mandare una e-mail, né fare una ricerca su Google, non prenotano viaggi né tantomeno utilizzano l’home banking. Non sanno scaricare un modulo né riempirlo online, non frequentano l’e-commerce né i siti degli enti e degli uffici, ignorano Skype e Wikipedia, e se proprio devono consultare Internet (o magari compilare il Censimento) chiedono aiuto ai figli adolescenti o addirittura bambini. C’è un pezzo d’Italia adulta, over 40, trasversale alle regioni e alla geografia, agli studi e alle professioni, più femminile che maschile, che non sa più “né leggere né scrivere”. Non conosce cioè il nuovo alfabeto digitale della vita quotidiana, e rischia in pochi anni (cinque, dieci al massimo, dicono gli esperti di nuovi linguaggi e nuovi media) di essere espulsa non solo dall’universo del sapere, quanto dall’accesso ormai sempre più online delle funzioni di ogni giorno.
Si chiama “analfabetismo digitale”, ed è uno dei tre analfabetismi censiti dall’Ocse per descrivere chi oggi, nel primo come nel quarto mondo, è a rischio di emarginazione per mancanza di competenze. Un rischio ben presente nel nostro paese, dove gli analfabeti “totali” ormai non sono più dell’1,5% della popolazione, ma dove quasi il 50% degli italiani adulti non possiede un computer né utilizza Internet. Un dato enorme se paragonato al resto d’Europa e soprattutto agli Stati Uniti.
Se però i genitori e i nonni arrancano, e ci pongono agli ultimi posti per “connessioni” alla Rete, è invece dai piccoli e piccolissimi che arriva la spinta opposta, in avanti, con ritmi quasi travolgenti: i digital kids made in Italy ma anche immigrati, nella fascia d’età che va dai 6 ai 10 anni, e soprattutto dagli 11 ai 17 anni, corrono velocissimi, apprendono da soli, sperimentano, conoscono e governano Internet esattamente come gli adolescenti di tutto il mondo cablato, stesse opportunità e stessi rischi inclusi. Una rivoluzione al contrario, dal basso verso l’alto, ma così accelerata da far temere che tra breve nella stessa famiglia e tra più generazioni si parleranno linguaggi sideralmente lontani.
Un po’ come avvenne negli anni del primo dopoguerra e dell’alfabetizzazione di massa, in cui furono i bambini che imparavano l’italiano a scuola ad insegnare a leggere e a scrivere ai nonni, i quali parlavano dialetti ormai incomprensibili ai nipoti, come ha ricordato un recente convegno a Torino dedicato ai nuovi analfabetismi e al maestro Manzi di “Non è mai troppo tardi”. E infatti la presenza di pc è sensibilmente più alta nelle famiglie dove ci sono bambini e ragazzi, il 68,1% contro il 54,9%.
“Ma rispetto ad allora – spiega Paolo Ferri, docente di Teorie e tecniche dei Nuovi Media all’università Bicocca di Milano e autore del saggio “Nativi digitali” – il tempo dell’apprendere per non restare tagliati fuori dalla vita di tutti i giorni, si è drasticamente accorciato. Nel giro di 5, al massimo 10 anni, non avere la connessione ad Internet, non saperlo usare, porterà ad una frattura radicale tra chi potrà avere accesso al lavoro e chi no, ai concorsi, all’università, ma anche al semplice destreggiarsi tra un bollettino da pagare e una visita medica da prenotare. E se sono diversi i tempi e i modi, oggi come ieri ci troviamo di fronte al problema di alfabetizzare una popolazione adulta, nell’assenza totale, da parte delle istituzioni, di una agenda digitale”.
In una fascia d’età strategica, quella tra i 45 e i 54 anni in cui si è nel pieno della vita produttiva, nel nostro paese soltanto il 53,0% degli italiani (dati Istat 2010) afferma di conoscere la Rete, e soltanto il 55,9% possiede un computer a casa. E il problema è più femminile che maschile, sono soprattutto le donne che non lavorano ad avere pochissime conoscenze tecnologiche. Nella stessa classe anagrafica negli Stati Uniti la connessione è invece dell’83%, e anche salendo con gli anni verso quella terza età dove i nipoti insegnano ai nonni i giochi e i trucchi del web, le connessioni Usa degli over 70 raggiungono il 45% contro il 12% dell’Italia.
“Ho imparato ad usare il computer grazie a mia nipote e ad un corso in parrocchia – confessa Adele, 74 anni – per poter leggere le mail di mio figlio che vive in Brasile e vedere sempre aggiornate le foto della sua famiglia. Poi però ho utilizzato queste nuove competenze per navigare, come dicono i ragazzi, e adesso partecipo a diversi forum e leggo le notizie”.
“Noi scontiamo un forte ritardo nelle infrastrutture, nella diffusione della banda larga, ma anche una resistenza culturale. Quegli stessi adulti così restii ad usare un pc vivono invece incollati al telefonino – aggiunge Ferri – basti pensare che in Italia ci sono 150 milioni di sim card attive. Certo, c’è anche chi pensa che questa dipendenza dalla Rete sia dannosa, che se ne possa fare a meno, che comprima le capacità di apprendimento dei bambini. In realtà i digital kids hanno imparato perfettamente a far convivere il mondo analogico con quello digitale, e i dati Ocse-Pisa dimostrano come i bambini con accesso alle tecnologie siano 50 punti più avanti, nel rendimento scolastico, dei coetanei che non le utilizzano”. E l’elemento da sottolineare è che il divario tecnologico riguarda le generazioni e non le “razze”, come si legge nel saggio “Profilo degli adolescenti immigrati di seconda generazione”, pubblicato dal Cnel nella primavera scorsa.
Tra i 15 e i 17 anni circa il 90% di questi adolescenti arrivati in Italia nella primissima infanzia, utilizza Internet con percentuali identiche a quelle dei ragazzi italiani. Ed è bella la testimonianza di Roxana, 40 anni, peruviana, badante e madre di una teenager: “Mia figlia adesso è in Italia, siamo state dieci anni lontane. È venuta per studiare: la prima cosa che ho fatto mettendo insieme due stipendi è stata quella di comprarle un computer. Così adesso mi insegnerà anche a parlare via Internet con i nostri parenti in Perù”.
Certo, si può diventare schiavi del mezzo, come avverte con severità Benedetto Vertecchi, e il primo linguaggio “deve essere sempre e solo quello alfabetico, simbolico, concettuale, altrimenti non si impara a pensare, altrimenti avremo una generazione che usa più le dita che la testa”. Che senso ha, si chiede Benedetto Vertecchi, “mettere le lavagne interattive nelle classi e poi smantellare i laboratori di fisica e di chimica, o regalare un computer ad un bambino di 5 anni e poi non digitalizzare le biblioteche?”. La discussione è aperta. Ed è giusto non enfatizzare i presunti saperi tecnologici, se poi, come scrive il fisico Paolo Magrassi nel divertente libro “Digitalmente confusi”, (FrancoAngeli), buona parte di quei saperi servono per “scaricare filmati da youtube, youporn o redtube”, o magari per connettersi e cercare amici su Facebook, insomma per pura evasione, andando poi a far la fila alla posta per pagare i bollettini o le tasse, ignorando quindi i vantaggi della vita online.
Tutto vero, ma in realtà, aggiunge Massimo Arcangeli, direttore dell’Osservatorio della lingua italiana Zanichelli, “il problema per una volta non è dei giovani che stanno riorganizzandosi su modelli cognitivi nuovi, con una trasformazione inarrestabile, una grammatica nuova, ma degli adulti, della loro fatica ad imparare, della loro resistenza ai nuovi linguaggi”. Perché se il rischio dei digital kids è quello di strutturare menti “più sintetiche che analitiche, e di avere una memoria troppo breve e immediata, è vero anche che il loro approccio al sapere oggi viaggia su connessioni diverse, inedite, e non è più possibile parlare di queste competenze come di una cultura di serie B”. Ma al di là del giudizio sulla “conoscenza”, il tema è assai più concreto.
Per coloro che oggi sono fuori dal world-wide web, per quel 47% di over cinquantenni che non frequenta né utilizza la Rete, dice Arcangeli “se non si trova un canale di alfabetizzazione di massa, attraverso la televisione, attraverso i corsi serali, proprio sul modello di quel famoso “Non è mai troppo tardi”, il rischio concreto è quello di ritrovarsi in una manciata di anni ai margini della società”.