Chi dorme sul web non piglia nuovi clienti

di Francesca Romana Rinaldi, SDA assistant professor di strategia e imprenditorialita’ e docente del Mafed, il master in fashion, experience and design managament.

Tra i paradossi che le aziende del lusso stanno cercando di risolvere ve ne è uno particolarmente attuale: come preservare i codici aspirazionali della comunicazione attraverso i social media, strumenti democratici per definizione?

Vuole rispondere al quesito il “Social Media Fashion Monitor”, osservatorio sviluppato dal febbraio 2011 all’interno del Mafed, Master in fashion, experience & design management della SDA Bocconi su un campione di oltre cento aziende della moda e del lusso. Fanno parte del campione quelle aziende con fatturato superiore ai 10 milioni di euro, che sono presenti a Milano con una boutique monomarca nel quadrilatero della moda o hanno un corner alla Rinascente-Duomo, differenti per posizionamento e modello di business. Questa varietà ha reso possibile confrontare il diverso modo di comunicare attraverso i social media di marchi come Hermes o Armani (luxury e fashion), Diesel e Miss Sixty (premium), Zara ed H&M (mass).
L’osservatorio si propone poi di classificare le aziende a seconda del grado di avanzamento digitale da Web 0.0 (minimo) a Web 3.0 (massimo).
Tra i primi risultati, sorprende che il 40% circa delle aziende del campione sia ancora nel Web 0.0 e Web 1.0, rispettivamente senza alcuna piattaforma o con un’unica piattaforma social. La maggior parte delle aziende del lusso monitorate è nel Web 2.0-basic, con almeno una piattaforma social, linguaggio web-oriented ma basso livello di interazione con i fan. Nel Web 2.0-advanced troviamo aziende come Louis Vuitton e Tommy Hilfigher che propongono sfilate virtuali e garantiscono un livello di interazione più elevato con i fan. L’ultimo livello (Web 3.0) è caratterizzato dal massimo livello di interazione con i fan, efficacia dell’info-commerce e personalizzazione dei servizi di e-tailing attraverso i social media. È il caso di aziende come Gucci e Burberry, rappresentative di una percentuale minima del campione (5%).
Dallo studio emerge che attraverso gli strumenti social le aziende del lusso possono differenziarsi su tre diversi livelli: contenuti, linguaggio e servizi.
I contenuti devono garantire un’apertura sull’azienda, sul lavoro dei creativi, sulla creazione e/o presentazione delle collezioni, devono essere esclusivi per la piattaforma social e cercare di portare il fan/follower dal mondo virtuale al mondo fisico (il negozio). A seconda dei casi si potrà proporre una sfilata in diretta web su Facebook con contenuti speciali dedicati ai fan, come nel caso di Gucci e Louis Vuitton oppure un contest, ad esempio la caccia al tesoro geolocalizzata di Jimmy Choo a Londra, che coinvolga Facebook, YouTube, Twitter e FourSquare. I post dell’azienda non dovranno riguardare unicamente i prodotti: l’obiettivo è coinvolgere e creare una relazione stimolando la comunicazione su vari argomenti potenzialmente interessanti per il fan/follower.
Il linguaggio deve essere web-oriented, ovvero diretto, informale, intrigante, non autoreferenziale. Tag line e post in forma di domanda sono la regola d’oro. Per rispondere può bastare anche solo un ’mi piace’!
Sul piano dei servizi per l’e-tailing i social media offrono numerose possibilità: personal shopper, direct mail di update sulla disponibilità di un prodotto (magari con possibilità di ritiro offline) e uso della tecnologia sono alcuni strumenti per lavorare sulla differenziazione.
Nei prossimi anni, nel lusso come nel mass, le aziende dovranno lavorare sul transmedia-storytelling, ovvero la creazione di una narrazione senza fili ottenuta adattando i concept di comunicazione attraverso i diversi media, sia offline che online.
Nel corso del suo viaggio, il cliente dovrà sentirsi avvolto da un racconto coerente che percorra tutti i punti di contatto, dal mobile al negozio.

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